Le prime tragedie: dalla «Cleopatra» all’«Oreste»

Nell’Esquisse, scritto nel dicembre 1773, compare alla fine l’anima di Cleopatra che si lamenta perché un giovane autore sparge tanto fiele su di lei. È il primo accenno a quella tragedia che nei Giornali in francese è ricordata come la «maudite Tragédie» che gli costava tanta fatica ma da cui poi ricavava tanto piacere quando, vinta la pigrizia, si applicava ad essa e vi lavorava a lungo e tutto d’un fiato. Nella Vita poi la «Cleopatraccia», che l’Alfieri escluse dal corpus delle sue tragedie, è ricordata a proposito della malattia dell’«odiosamata» signora e la sua prima origine è collegata a un tentativo poco impegnativo di attività poetica, documentato da un primo «Abbozzaccio» improvvisamente interrotto, e “covato” a lungo nel ’74 in una poltroncina della camera dell’amante da quanti in quei mesi vi sedettero.

L’abbozzo venne poi ripreso e portato ad intero compimento. L’Alfieri avrebbe intuito solo allora il riferimento di quella vicenda (suggeritagli, egli dice, da un arazzo) con la propria avventura, con lo “sconcio amore” che lo tormentò a lungo in quell’epoca di crisi e che di quella crisi, nel suo aspetto di lotta tra volontà e basse passioni, fra desiderio di gloria e di poesia e pigrizia e abitudine d’ozio, fu vistoso motivo.

Il giovane scrittore si era assunto un compito superiore alle sue attuali possibilità di chiarezza e di sintesi e, come il suo mondo poetico è qui presente in forma abbozzata e dispersiva e gli affetti che lo “divoravano” urgono in maniera frammentaria e disordinata, con continui squilibri di intensità e con ripieghi evidenti di mezzi convenzionali e romanzeschi o melodrammatici, cosí la struttura della tragedia alterna momenti di vera azione con surrogati scadenti di narrazione aggrovigliata e pesante, e lo stesso contrasto tragico (piú chiaro in Antonio, fra amore ed eroismo, piú incerto e complicato in Cleopatra, fra pentimenti, «catene» del vecchio amore per Antonio e volontà di regno) si risolve per lo piú o in impeti avventati di soliloquio esaltato e in rigide massime raziocinanti, o in vera e propria perplessità melodrammatica e in duetti di scadente derivazione dal Metastasio, di cui ritornano spesso precisi moduli di esaltazione canora e che invano l’Alfieri cercava di far servire a quei momenti di sospensione tragica, di suprema lotta interiore che pur tanto chiaramente traspaiono nella loro vera natura, specie nelle battute di Antonio, l’uomo puro che lotta invano contro la perfidia femminile, le lusinghe della passione amorosa e la sorte che arride agli scellerati e malvagi.

Tuttavia in queste forme, inadatte e addirittura controproducenti, affiora il dramma essenziale dell’Alfieri, immaturo, ma sincero; e come piú volte nello stesso impaccio del linguaggio melodrammatico, nell’ingorgo di tensione e di languore sentiamo erompere veri accenti alfieriani e vibrare nella perplessità di tipo metastasiano l’impeto del contrasto e del tormento alfieriano, cosí nella stessa vicenda generale si avverte la presenza di elementi energici dell’animo poetico alfieriano: l’ansia della liberazione e dell’affermazione della personalità irretita nei limiti delle passioni e degli inganni, il desiderio della morte risolutrice, il presentimento e quasi la voluttà amara della disfatta. Tutto è ancora torbido e sfocato, ma ricco di spunti di movimenti alfieriani, e i due personaggi centrali e l’azione accentuano la loro natura alfieriana, rivelano meglio la loro tensione e il loro accento tormentato, impetuoso, doloroso, a mano a mano che ci si avvicina al finale, all’apparire della morte e della catastrofe, in cui i motivi prima piú incerti, faticosamente legati con giustificazioni romanzesche e sofistiche, trovano soluzione piú unitaria in scene che l’Alfieri stesso nel suo Sentimento dell’autore trova soddisfacenti, scritte «con rabbia, e furore»[1].

Nell’Antonio e Cleopatra l’Alfieri aveva per la prima volta dato vita, seppure in forma cosí confusa ed incerta, agli affetti che lo «divoravano»[2]. Ma la presenza di un autobiografismo troppo crudo (che fu però cosí stimolante in quel momento di crisi e di conversione all’attività poetica) e la mancanza di una cultura letteraria adeguata, sostituita da mezzi espressivi che aumentavano la difficoltà di espressione di un animo poetico ancora incerto nella propria piú chiara definizione e ne accentuavano le tendenze piú facili (enfasi e patetismo), impedirono all’Alfieri di scrivere una tragedia che superasse uno stadio di preparazione e su cui potesse ritornare piú tardi, sicuro di avere in quella un nucleo saldo e suscettibile di un approfondimento, pari invece a quello che egli poté compiere nei riguardi delle nuove tragedie ideate nel ’75: Filippo e Polinice.

In queste due tragedie egli volle ritornare (diversamente dalla Cleopatra, scritta direttamente in versi italiani) alla sua base linguistica meglio posseduta e anche, se di per sé inadatta alla sua meta piú alta, piú sicura, per la sua precedente esperienza dei Giornali in francese e delle sue letture in quella lingua, e si dispose ad un lavoro lungo e complesso, in cui egli venne articolando il caratteristico schema della sua elaborazione poetica: Idea, stesura in prosa, versificazione.

Questo lavoro di approfondimento poetico, di precisazione stilistica, di eliminazione (anche se non sempre pienamente riuscita) di quelle tendenze patetico-romanzesche “alla francese” che corrispondevano alle manifestazioni piú esterne e facili del suo animo poetico in quel periodo, è particolarmente evidente ed istruttivo nel caso del Filippo che, ideato il 27 marzo 1775, steso subito dopo in francese, fu steso di nuovo in italiano nel luglio di quell’anno e versificato piú volte: una prima versificazione della fine del ’75 fu bruciata dall’autore, una seconda è del 24 giugno-24 agosto 1776, una terza del 21 luglio-3 agosto 1780, una quarta del 5-29 dicembre 1781 (pubblicata nell’edizione senese dell’83), poi corretta nel 1783, 1787, 1789 per l’edizione parigina del Didot, in cui la tragedia comparve nella sua forma definitiva.

Tutta la tragedia subí cosí una complessa trasformazione, che da un nucleo drammatico iniziale assai forte, ma impacciato dalla notata tendenza patetico-romanzesca e da tentazioni di sviluppo in direzione piú languida e facilmente elegiaca, la portò alla potente realtà poetica che ne fa una delle piú notevoli tragedie alfieriane (soprattutto per lo sviluppo del personaggio centrale, Filippo), anche se non mancano pure nella forma definitiva punti piú deboli, echi della prima concezione nel suo aspetto piú patetico e romanzesco, specie nelle due figure di Carlo e Isabella che mantengono fino all’ultima redazione qualche traccia di languore patetico, di piú estrema cadenza malinconica[3] rispetto all’approfondimento e irrobustimento di Filippo, reso sempre meglio non solo protagonista ma promotore effettivo dell’azione che tuttavia si svolge per opera sua.

Proprio guardando soprattutto a Filippo (in queste prime tragedie la forza di propulsione è tanto piú concentrata nel personaggio centrale e solitario) la tragedia appare superiore alle critiche, piú volte fattele, di staticità, che è rilievo esterno alla sua vera natura e alla natura delle tragedie alfieriane in genere: cosí come poco sostenibile è la critica alla sua eccessiva “storicità”, ché anzi la delineazione essenziale della corte spagnola, nell’estremo assolutismo di Filippo II e nell’intreccio di dispotismo e Inquisizione ecclesiastica, è coefficiente positivo di quel clima di orrore, di sospetto, di paura che circonda tutti i personaggi minori.

Infatti se il disegno di Filippo appare chiaro sin dall’inizio, e Carlo è consapevole del suo destino, ciò che conta è l’azione entro i termini già stabiliti della catastrofe, è il progressivo richiudersi della rete ordita da Filippo e dentro di essa il fremere, il dibattersi di Carlo e di Isabella, il ritmo incalzante di questo precipitare verso la morte, lo svilupparsi e il manifestarsi del geloso furore di Filippo, sempre piú cupo e tormentoso, della sua gigantesca figura anelante a concludere quella azione da cui egli attende (egli stesso, malgrado la sua lucidità estrema, incalzato da una passione che lo divora entro il suo impenetrabile autocontrollo) quella suprema libertà, quell’affermazione totale del proprio superbo desiderio di assoluto potere e dominio che alla fine si rivelerà frustrato dall’insorgere di una delusione altrettanto potente, dalla constatazione della propria invincibile infelicità. E in questo incalzare dell’azione che non si risolve nella sperata felicità, in questo ritmo della vita del personaggio centrale che quando crede di avere infranto ogni ostacolo e ogni limite (e proprio i vincoli piú sacri e naturali della famiglia) si trova di nuovo infelice e limitato dalla propria delusione, dalla propria coscienza di infelicità, la tragedia realizza la sua vita poetica ed esprime poeticamente (anche se non con la complessità piú intima, e con la coerenza piú intera di tutti i personaggi di altre grandi tragedie) il fondamentale motivo poetico alfieriano, a cui il poeta poté dare tutto il suo svolgimento e il potente rilievo finale solo quando precisò in Filippo l’ultimo moto di scontentezza, e di consapevolezza del sostanziale fallimento della sua azione, pur potentemente ricondotta entro la sua ferrea capacità di controllo di se stesso e degli altri.

Sull’eco delle ultime parole di Isabella, che presentano il quadro della scellerata opera del re ed esaltano il proprio amore per Carlo, si alza lenta e misurata la voce di Filippo che constata l’adempimento della sua vendetta precisandone in parole scandite e pausate la perfetta realizzazione.

La battuta passò da una prima intuizione insufficiente e parziale, attraverso una lunga storia di successive redazioni, fino alla sua piú piena realizzazione nell’edizione definitiva, in cui quella prima intuizione è stata approfondita, arricchita, svolta alla luce di tutto il complesso svolgimento della poetica alfieriana in anni decisivi per la maturazione della sua piú grande poesia.

Nella prima Idea in francese, del ’75, il protagonista concludeva la sua azione con l’espressione di un esplicito compiacimento per la vendetta attuata: «Philippe finit en recomandant à Gomez un secret inviolable sur certe affaire, et content d’être vengé»[4]. Ma già nella stesura in francese la battuta di Filippo è limitata alla raccomandazione rivolta a Gomez di non far mai trapelare la verità di quel «funeste événement», mentre una battuta di Isabella morente suggeriva già, in forme troppo comuni, una possibilità di sviluppo ulteriore nella figura del tiranno: «Tyran es-tu satisfait? ton fils, ton épouse, ce que tu devois avoir de plus cher périt par ta main, périt à tes yeux, et périt innocent; monstre, tu ne trembles pas?»[5].

Poi, nella stesura italiana, affiora piú decisamente un nuovo atteggiamento di Filippo preso da un improvviso moto di rimorso e volto a riconoscere sin troppo esplicitamente l’inutilità della sua azione, in senso morale-eudemonistico: «Ah Gomez: di già i fieri rimorsi mi squarciano a brano; la pace che dai delitti invano sperava mi fugge»[6]: parole intervallate, rispetto all’ultima raccomandazione di segretezza, da un ultimo sfogo di Isabella che invoca dal cielo la vendetta e una pronta morte che la ricongiunga a Carlo.

Ma, a parte questo intreccio di voci di effetto troppo melodrammatico, l’indicazione dei «fieri rimorsi» insisteva eccessivamente su di una coscienza e su di una aperta conversione morale che stonavano con la direzione fondamentale della figura di Filippo, tutta impostata su di una estrema lucidità di azione e in una motivazione sin troppo chiara di gelosia.

Non troppo diversamente si articola la battuta nella versificazione del ’76, anche se essa porta una notevole unificazione delle due battute di Filippo ed espunge l’improprio intervento di Isabella:

Fieri rimorsi

già mi squarciate a brano a brano il petto.

Ah che purtroppo è ver, che mal s’ottiene

la pace dai delitti! ognor s’asconda

Gomez l’orrido caso: a me l’onore

tu salverai tacendo; a te la vita.[7]

Solo nella redazione del 1780 la battuta finale, appoggiata all’apertura allucinante dell’immagine del «mar di sangue» (con un’espansione metaforica eccessiva che pur voleva contribuire a un essenziale innalzamento di tono), si arricchisce di una prima abbozzata forma dell’interrogativo-vocativo che costituirà lo scatto piú nuovo e coerente della delusione e insoddisfazione di Filippo:

Un mar di sangue

scorre. Ah Filippo vendicato sei,

ma felice se’ tu? Gomez, l’orrendo

caso ad ogn’uom s’asconda: a me la fama

a te la vita salverai se taci![8]

E proprio nella redazione seguente del 1781 il gran numero di varianti può indicare l’assillo del poeta circa la piú sicura impostazione dell’interrogativo, ormai sentito centrale, e a cui egli non riusciva a togliere l’inclinazione troppo familiare e insieme retorica della seconda persona e dell’indicazione del proprio nome, e la disposizione piú discorsiva fra la constatazione della vendetta e quella dell’insoddisfazione dolorosa.

Sinché, nella forma dell’edizione Didot (nel volume aggiunto dell’89), tutti gli elementi che da tempo cercavano equilibrio e coerenza vengono ad assumere la loro funzione in un ritmo tragico e desolato, come la figura di Filippo vi trova la sua migliore misura, superando la mostruosità un po’ ingenua dell’inizio e l’indicazione moralistica troppo esplicita successiva in una enigmaticità paurosa ma umana, in cui l’impeto dolente dell’insoddisfazione corre a risolvere un esemplare termine del modulo tragico alfieriano senza cadere nella giustapposizione del riconoscimento della giustizia divina del Creonte dell’Antigone, né d’altra parte giungendo alla piú profonda complessità del tiranno-vittima del Saul, di cui pure costituisce un antecedente essenziale nella situazione peculiare della tragedia giovanile:

Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio...

Ecco, piena vendetta orrida ottengo;...

Ma, felice son io? ... – Gomez, si asconda

l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama,

a te, se il taci, salverai la vita.[9]

E, pur nei limiti costituzionali della tragedia giovanile, nelle possibilità offerte da quella originaria concezione generale della tragedia, tutto si è sistemato in maniera piú coerente e profonda, dando alla battuta il suo valore piú pieno e maturo.

Ma come intendere e valutare davvero quel risultato ultimo (e insieme capirne i limiti interni), come intenderne la forma di equilibrio alfieriano che vi si traduce (equilibrio sulla tensione e intensificazione dei nuclei interni e del loro consolidamento espressivo di immagini e linguaggio) e insieme intendere e valutare la lunga vicenda poetica che vi confluisce e il senso e l’apporto dei vari passaggi (e il significato delle loro particolari condizioni), senza rifarsi alle ragioni centrali del lavoro alfieriano, non in forma di verifica, ma in forma di collaborazione dell’esame particolare e dell’esame generale? Lavoro poetico che era poi una continua reinterpretazione dei propri fantasmi poetici (non l’immaginazione che vuol realizzarsi quasi per una propria spinta autonoma e misteriosa, ma la personalità del poeta sempre piú consapevole, potente e matura, ricca di fantasia e di coscienza artistica) e si collega a tutto lo svolgimento alfieriano con le nuove esperienze vitali, culturali, artistiche, con la sua conquista lenta e sofferta di uno stile piú maturo che corrisponde a nuove conquiste di una intuizione tragica piú profonda.

Sicché lo stesso modulo dell’interrogativo-vocativo, dentro lo sviluppo del dialogo sempre piú esplicito, sarà insieme una conquista tecnica della piú matura teatralità alfieriana e il corrispettivo di una profonda maturazione del personaggio (organicamente sviluppata in tutta la tragedia) e dell’intuizione alfieriana tragica legata alla novità di altre opere e all’intreccio fra queste e la reinterpretazione delle prime tragedie. Mentre l’abolizione della seconda persona implica insieme una maggiore sicurezza del gusto che ha avvertito un pericolo retorico, una confidenza e un intenerimento prosastico, e la piú profonda maturazione di un decoro tragico che si fa dignità, di una meditazione concentrata sull’assoluta e sofferta intimità dolorosa del tiranno, il quale scopre, nella sensazione della sua insufficienza, della limitatezza della propria azione, della sua tensione di affermazione e di abnorme felicità, la sua singolare umanità di vittima di un destino che su lui ricade implacabile.

Nel 1775 l’Alfieri ideò tre altre tragedie, ma due di queste (Giulietta e Romeo e Carlo I) non vennero poi proseguite: la prima fu abbandonata dopo la stesura, che fu data alla fiamme; la seconda fu interrotta alla stesura del III Atto, quando al poeta «si agghiacciò sí fattamente il cuore e la mano, che non fu possibile alla penna il proseguirlo» (come egli ebbe ad esprimersi nella Vita[10]), e quell’abbozzo incompiuto in francese ci dà ben ragione della sua interruzione: perché esso mancava di un vero nucleo drammatico suscettibile di sviluppo e rappresentava, piuttosto che una situazione poetica, una discussione assai incerta dell’Alfieri con le proprie idee politiche prima della chiarificazione maggiore della Tirannide, quando gli apparve assurda qualsiasi eccezione alla eguaglianza fra re e tiranno.

Nel Carlo I l’Alfieri indugiava nel vagheggiamento di un re (Carlo I d’Inghilterra) buono e leale di fronte ad un tiranno demagogo (Cromwell), di un repubblicano onesto e ingenuo (Fairfax) davanti a un principe tirannico (il figlio di Carlo I), e svolgeva una discussione interessante ma inconcludente sui mezzi violenti o pacifici con cui conseguire la libertà. Si trattava di un tentativo di porre in scena una dissertazione politica, priva di ogni motivo poetico e debole nelle sue possibili conclusioni, riflesso di oscillazioni del pensiero politico alfieriano sotto lo stimolo di motivi montesquieuiani e, oltre tutto, con un evidente errore d’interpretazione della figura di Carlo I e della sua morte.

Ben diversamente vitale era l’idea del Polinice che venne svolta, dopo la stesura francese e italiana del 1775 (l’Idea è del 28 maggio, la stesura francese del 29 maggio-4 giugno, quella italiana del 6-11 luglio), in due versificazioni (Pisa, 14 maggio-9 giugno 1776; Roma e Napoli, 25 aprile-6 giugno 1781), la seconda delle quali fu corretta nel 1787 per l’edizione parigina.

Anche nel Polinice l’Alfieri partiva da una prima concezione legata a letture francesi (in questo caso Les Frères ennemis del Racine e I sette contro Tebe di Eschilo nel rimaneggiamento del Théâtre des grecs del Brumoy), ma ben presto egli si giovò dell’ausilio di testi piú adatti, incontrati nelle sue nuove letture italiane e latine: la Tebaide di Stazio nella versione di Bentivoglio, l’Ossian cesarottiano, le tragedie di Seneca. E contemporaneamente si sprofondava negli studi grammaticali per il possesso sicuro e minuto dell’italiano, a cui lo stimolava anche il purismo di alcuni gruppi di letterati piemontesi (soprattutto il Paciaudi e la scuola del Tagliazucchi) ma a cui piú intimamente era spinto dal profondo bisogno di una lingua organica posseduta in tutte le sue possibilità letterarie e nella sua radicale vitalità.

Donde l’attenzione crescente alla lingua toscana parlata (e persino alla sua pronuncia), documentata dai suoi viaggi già nel ’76 e ’77 a Pisa, Firenze, Siena e dalle relative raccolte di parole e di modi di dire (con vocabolarietti francese-italiano e piemontese-italiano).

Ma fra le letture e gli studi di quegli anni, piú direttamente interessanti per il lavoro delle tragedie e in particolare del Polinice furono, come dicevamo, le letture di Seneca tragico (di cui l’Alfieri poteva apprezzare, pur nella riconosciuta retorica, gli effetti violenti del verso spezzato e sintetico), dell’Ossian cesarottiano con i suoi endecasillabi «ben architettati» (come li chiamò nella Vita), ma piú in profondo ricchi di suggestioni sentimentali, di un senso dell’orrore, della morte, dell’eroismo sfortunato che dové operare come forte stimolo sull’animo alfieriano, anche se nella composizione del Polinice piú immediatamente efficace fu la lettura della Tebaide di Stazio nella versione del Bentivoglio, che rafforzava con il suo endecasillabo eloquente e grandioso la reazione dell’Alfieri ai pericoli melodrammatici della sua prima prova tragica nella Cleopatra e aiutava (anche se non senza altri rischi di eloquenza e di enfasi, di eccesso nella direzione del truce e dell’orrido) il poeta nel suo sforzo di superamento degli elementi patetici e languidi della sua formazione francese.

E pure, in complesso si può dire che sulla base già della stesura italiana la tragedia trovò assai presto la sua intonazione fortemente drammatica e se, rispetto alla prima versificazione del ’76, quella dell’81 importa un consolidamento e una precisazione piú controllata e contenuta della forza esuberante liberata in quella, e la redazione definitiva aggiunge alcune battute che chiariscono e approfondiscono il significato alfieriano del protagonista e del motivo centrale della tragedia, tutta la tragedia viene elaborata dopo la stesura italiana con una relativa facilità e senza cambiamenti troppo bruschi.

Il personaggio centrale, Eteocle, assume presto la sua posizione di forza e di eccesso passionale, anche se, come ho detto, esso trova solo nella redazione finale il suo completamento essenziale e il rilievo piú intero del suo significato poetico, suggellando con un movimento di scontentezza e di insaziabilità la sua potente natura alfieriana, il suo carattere di individuo divorato da una sete smisurata di affermazione personale e da un odio furibondo contro ciò che a quella si oppone e che non potranno essere appagati neppure dalla vendetta e fanno vibrare questo personaggio, carico di una forza barbarica, fra la delusione tipica delle catastrofi alfieriane e un prolungarsi oltre la morte di quell’odio, di quella furibonda tensione. Ed è da questo personaggio centrale, enorme e scoperto (diversamente dall’enigmatico Filippo, piú controllato e poeticamente grande), barbarico e rozzo, vivo di una sola passione tremenda, in cui l’odio per ciò che lo limita supera a un certo punto le stesse ragioni della sua lotta, che la tragedia riceve la sua luce poetica maggiore, la sua caratteristica di estrema tensione, di vita per eccesso. Perché, malgrado gli sforzi di arricchimento e di complessità dell’Alfieri, solo Eteocle rimane unitario e potente e solo l’azione da lui condotta ha forza e continuità pur nel suo carattere di azione impetuosa e senza linea, fatta di scatti piú che di svolgimento. La tragedia nacque cosí e cosí rimase sostanzialmente, frammentaria e priva di equilibrio, ricca di un impeto centrale, di un nucleo poetico intenso nel personaggio di Eteocle nonché di interessantissimi spunti poetici negli altri personaggi, ma appunto in questi motivi secondari irrealizzata e frammentaria e involta in un’atmosfera poetica di orrore intensa, ma non priva di eccessi e di cadute in una certa retorica legata anche alla base letteraria (Stazio-Bentivoglio soprattutto) che pur aveva consentito all’Alfieri di superare piú facilmente i toni languidi e patetici dell’Idea e stesura francese.

Indubbiamente l’Alfieri, nello sviluppare la sua tragedia, cercò insieme di approfondire e potenziare il personaggio di Eteocle (che risultò veramente centrale e, nella sua rude grandiosità, compiuto e coerente) e di dare vita ad altri personaggi e sentimenti oltre che di complicare l’azione troppo semplice derivante in Eteocle dall’odio fraterno con la subdola e machiavellica trama ordita da Creonte, fratello di Giocasta e zio dei due fratelli nemici.

Particolarmente difficile riuscí la realizzazione di questo complicato disegno: la trama di Creonte (figura astratta e meccanica, senza la minima vibrazione poetica), che vuole sfruttare a proprio vantaggio la fatale eredità delittuosa della famiglia di Edipo, le rivalità dei due fratelli e l’odio di Eteocle per Polinice, che è il vero movente della tragedia. È evidente che nell’Alfieri vi fu una certa esitazione, in sede di intenzioni, circa l’assoluta centralità di Eteocle, e mentre il suo istinto poetico lo portava ad assicurarla effettivamente in maniera sempre piú chiara, egli pensava di dare luce particolare al personaggio di Polinice, a cui dette l’onore di figurare come titolo della tragedia, che prima (nelle stesure) era I fratelli nemici e poi (nelle due prime versificazioni) Eteocle e Polinice. Né certo mancano nella figura di Polinice (il fratello puro, l’eroe che accetta la lotta per la difesa della propria dignità) interessanti spunti di motivi poetici, che rimangono però dispersi e inefficaci, anche se suggestivi in singole battute, in singole espressioni di grande altezza sentimentale. Lo stesso discorso si dovrà fare per la figura di Antigone (accomunata a Polinice dal senso doloroso della nascita incestuosa), che anticipa, ancora abbozzato, con alcuni tratti di alto canto elegiaco, quello che sarà il grande personaggio della tragedia successiva. E in sostanza, in questa disposizione di squilibrio fra un personaggio e motivi centrali potenti, e motivi poetici diversi che non riescono a fondersi, e vivono con diversa intensità in Polinice e Antigone (piú debolmente in Giocasta – freddo del tutto e meccanico Creonte), è implicito non un assurdo invito ad una lettura antologica, ma certo l’indicazione di un recupero di spunti poetici di grande suggestione e molto promettenti ma non sviluppati fino ad animare interamente un personaggio e renderlo vivo, come è invece quello, unico, di Eteocle, del barbarico, mostruoso eroe dell’odio insaziabile, dell’inappagato desiderio di illimitato dominio, del feroce bisogno di rottura di ogni vincolo fin a quelli del sangue e della famiglia: estrema, esasperata espressione, in questa fase iniziale delle tragedie, di quello che è stato detto l’anarchismo alfieriano, ma in cui non potrebbe certo risolversi tutta la complessa origine o lo sviluppo della grande poesia alfieriana[11].

Con l’Antigone (ideata e stesa nel 1776 come l’Agamennone e l’Oreste) si apre un ciclo dell’attività tragica alfieriana che ha il suo culmine nell’Agamennone e che si distacca dall’attività dell’anno precedente per la maggiore sicurezza del poeta, il suo maggiore possesso della lingua poetica italiana, la sua aumentata capacità di linguaggio, di scavo psicologico e di complessità di toni e sfumature nella costruzione del personaggio centrale, tanto che l’Alfieri stesso scrisse sul manoscritto della versificazione del ’77: «Alba d’un nuovo stile».

L’Antigone è tragedia ancora mancante di una totale unità e soprattutto viva nel personaggio centrale, ma in quel personaggio essa raggiunge una singolare altezza poetica e intorno a quel personaggio si creano zone intere di poesia coerente e continua e di una finezza e purezza che non si possono trovare nel Polinice.

La tragedia non parte piú dalla prosa francese e, seppure non vi mancano echi di tragedie francesi secentesche (soprattutto dell’Antigone del Rotrou), essi si limitano a particolari della trama e non riguardano certo l’intimo atteggiamento dei personaggi.

Nell’elaborazione dell’Antigone (dalla Idea e stesura italiana del 1776 – Idea 22 maggio e stesura 10-21 giugno, a Pisa – attraverso la prima e seconda versificazione – Torino, 13 febbraio-12 aprile 1777; Roma, 6 giugno-4 luglio 1781 – alla lezione definitiva) piú che di eliminazione di toni e motivi romanzeschi e languidi o convenzionalmente eleganti e preziosi, come nelle due prime tragedie rispetto alla stesura francese, si tratta di alcune modificazioni del disegno dell’opera in parte già attuate nel passaggio dall’Idea alla stesura alla prima versificazione: come la soppressione di un personaggio inutile ed anzi impacciante (Menete, accompagnatore di Argia), ultima traccia di quella concezione tragica francese in cui confidenti e intermediari erano essenziali e da cui l’Alfieri si liberava qui definitivamente.

Ma ben piú importante è la progressiva distinzione della sorte e della psicologia di Antigone e di Argia, che nell’Idea e nella stesura erano assai piú vicine fra loro e accomunate da volontà assai simili e soprattutto da una stessa morte.

Già nella prima versificazione l’Alfieri intuí piú chiaramente la necessità di staccare Antigone da Argia, di distinguere la sua personalità eroica e femminile (ma appunto femminile e delicatissima senza pericoli di languore e di svenevolezze, perché saldamente distinta da una psicologia debole e trepida) da quella della piú fragile e tenera Argia. E come la sorte diversa (sottolineata nell’incontro ultimo, quando le loro strade divergono, quella di Antigone verso la morte, quella di Argia verso la patria e gli affetti familiari) le separa nettamente assegnando ai due personaggi una diversa funzione e un diverso significato e legando solo Antigone allo sviluppo tragico dell’azione, accrescendone anzi la solitudine dolorosa e orgogliosa, cosí nell’elaborazione delle versificazioni l’Alfieri coerentemente perfezionò la distinzione delle due figure femminili ottenendo il grandioso isolamento di Antigone e l’incantevole effetto di incontri fra due voci di diversa intensità e vigore, pur su di un fondo comune di femminilità e di affettuosa consonanza. E mentre (persino con spostamenti di intere battute da Argia ad Antigone, dove quelle implicavano decisioni e atteggiamenti piú eroici e risolutivi) distingueva sempre meglio i due personaggi, il poeta veniva anche approfondendo sempre piú il personaggio di Antigone, assicurandone l’eccezionale purezza e fermezza contro ogni possibile languore, rendendola sempre piú eroica e solitaria, bramosa di una morte liberatrice e purificatrice, ma insieme ricca di una vita affettiva delicata e intensa, di una consapevolezza della propria fragilità umana, piena di sfumature delicatissime che tolgono alla sua forza eroica ogni rigidezza schematica e scolasticamente esemplare e la rendono viva e concreta, cosí come quella forza e quella solitudine di creatura superiore ed eccezionale assicurano una robustezza sentimentale e poetica, coerente e compatta ai moti piú soavi e delicati della sua pietas familiare, della sua virginale femminilità.

E sempre meglio l’Alfieri, specie nella seconda versificazione e in quella definitiva, accanto al rafforzamento della figura di Antigone nella sua brama e volontà della morte sentita come liberazione da una vita limitata dalla sventura, dalla tirannia scellerata di Creonte e dal peso fatale dei delitti della sua famiglia (e quindi come tutti i veri personaggi alfieriani tesa con tutta la propria energica personalità a liberarsi dagli ostacoli che la limitano, a cercare in un gesto risolutivo la conclusione di un’azione eroica e liberatrice), sviluppò (assai piú che in Eteocle nel Polinice, in cui l’accento poetico batte sulla tensione dell’individuo e lo stesso moto finale di scontentezza si atteggia quasi in una prosecuzione del desiderio insaziato di odio e di vendetta) il motivo dell’amarezza, del dubbio tormentoso e dolente dell’insufficienza di quella tensione e di quell’azione liberatrice.

Antigone vuole la morte (lo stesso atto della sepoltura data al cadavere di Polinice deriva non solo da un alto senso di dovere e di pietà, ma dalla certezza che quell’atto doveroso implica la condanna da parte di Creonte, la morte), perché la sente come unico mezzo per rompere la catena di delitti di cui il fato ha caricato la sua famiglia e a cui essa stessa si sente solidalmente legata. Ma la morte purificatrice e liberatrice, quando sarà ormai prossima in tutto il suo fascino e il suo orrore, apparirà essa stessa insufficiente a risolvere per sempre il destino delittuoso, la colpa della famiglia di Edipo, e Antigone avrà come un ultimo movimento di dubbio, un sospiro di ansia[12] che completa la sua vita poetica, il suo significato di voce del complesso motivo poetico alfieriano. Dico «voce» non simbolo, come parve al De Sanctis nella sua incerta polemica con i romantici e nella sua contraddittoria definizione dei personaggi alfieriani ora come individui sanguigni (ma di sangue non proprio) ora come simboli; perché i grandi personaggi alfieriani sono viva, varia, concreta, istintiva espressione del fondamentale motivo poetico alfieriano che in essi si realizza non come qualcosa di esterno e di astratto: né l’Alfieri ebbe mai velleità di portare sulla scena problemi e formule filosofiche, né mai tradusse in chiarezza filosofica il dramma spirituale e storico che egli poteva solo far vivere in poesia.

Nello sviluppo della tragedia l’Alfieri volle anche approfondire ed ampliare il dramma e il significato del tiranno Creonte e di suo figlio Emone, innamorato di Antigone che suo padre vuole invece eliminare per assicurare per sempre il trono di Tebe a sé e al figlio.

Ma se quei due personaggi e la loro situazione nei confronti di Antigone sono indispensabili allo sviluppo intero del personaggio centrale, la loro vita, e soprattutto il dramma di Creonte rimangono piú deboli, senza profonda poesia. Emone è personaggio “perfetto” su di un piano di intenzioni e di coerenza “virtuosa”, ma è troppo rassegnato e lontano dalla potenza e complessità della donna che ama e la cui superiorità persin troppo facilmente riconosce, privo di una forte personalità e quasi replica minore di Carlo nel Filippo. Creonte è un piccolo tiranno privo di grandezza e mediocre in ogni suo atto, e la complicazione sentimentale di cui l’Alfieri lo arricchí (l’amore fortissimo per il figlio) non porta nessuna vera vibrazione poetica in un personaggio cosí scialbo e artificioso.

Cosí la tragedia ha qualcosa di piú diviso, malgrado la sua generale bontà tecnica; e la sua piú vera poesia è discontinua: viva ed altissima nella vita del personaggio di Antigone e nel suo rapporto con Argia, debole e intenzionale nel dramma di Emone e di Creonte. Sicché a voler indicare (oltre alla potente suggestione poetica che Antigone crea intorno a sé in tutta la tragedia ovunque essa compare) le parti piú compatte di poesia, si possono indicare tutto il I Atto e le prime tre scene dell’Atto V, in cui appunto è centrale e altissima la presenza della protagonista.

Nel I Atto sulla scena, dominata dal tema e dalla suggestione della notte e dell’«orribil reggia», e sull’avvio di questi temi nella voce piú tenue di Argia, si alza la voce purissima ed alta di Antigone che riprende quei temi e li intreccia ai motivi della sua personalità, che in quella prima parlata si esprimono con tanta sensibile complessità, con un misto di eroico, di femminile, di orgoglioso e di inebriante nella volontà dell’azione e della morte, di trepido e di pensoso nella consapevolezza della fragilità dei sensi femminili, nel timore umanissimo di non aver tutta la forza necessaria a sostenere la morte voluta anche come mezzo unico per rompere la catena di delitti di cui il fato ha caricato la sua famiglia e a cui essa stessa si sente solidalmente legata e che insieme avverte come insufficiente a purificare per sempre l’enorme colpa accumulata sulla stirpe di Edipo[13]: e questo incontro di una solitudine eroica cosí continuamente ribadita – «io sola», «io non deludo, affronto / i tiranni», ecc. – e di una femminile capacità di compassione e di intenerimento da cui Antigone deve guardarsi come da un ostacolo alla sua azione, è davvero il risultato di un poeta ricchissimo di sensibilità, e insieme «arciaristocratico», come diceva il Goethe, nel suo senso eroico delle personalità eccezionali e superiori alla media comune degli uomini:

– Queta è la reggia; oscura

la notte: or via; si vada... E che? vacilla

il core? il piè, mal ferme l’orme imprime?

tremo? perché? donde il terrore? imprendo

forse un delitto?... o morir forse io temo? –

Ah! temo io sol di non compier la impresa.

O Polinice, o fratel mio, finora

pianto invano... – Passò stagion del pianto;

tempo è d’oprar: me del mio sesso io sento

fatta maggiore: ad onta oggi del crudo

Creonte, avrai da me il vietato rogo;

l’esequie estreme, o la mia vita, avrai. –

Notte, o tu, che regnar dovresti eterna

in questa terra d’ogni luce indegna,

del tuo piú denso orrido vel ti ammanta,

per favorir l’alto disegno mio.

De’ satelliti regj al vigil guardo

Sottrammi; io spero in te. [...][14]

E tale altezza di canto resiste fino alla fine dell’Atto, quando Antigone accetta l’aiuto di Argia all’opera eroica e pietosa delle esequie di Polinice (e l’accetta dopo esitazioni cosí poetiche nella sua coscienza della diversa natura e del diverso destino di Argia), e nell’essenziale incontro delle due voci, nella loro diversa decisione e complessità si svolge un altro momento di quella poesia intima e finissima che tradizionalmente veniva negata all’Alfieri e che d’altra parte è tanto superiore ad un patetismo languido perché raggiunta, nella sua estrema delicatezza, su di un alto piano eroico, nella eliminazione del sentimentalismo e dell’effusione incontrollata.

L’altra zona alta e compatta di poesia è nelle prime scene dell’Atto V, in cui si ripete l’incontro fra le due donne nella stessa atmosfera notturna dell’inizio. Ma questa volta le due donne si incontrano mentre si avviano a due mete opposte, che le distinguono ancora nel loro diverso destino e significato poetico: Antigone si avanza, carica di catene fra le guardie, verso l’orribile morte cui Creonte l’ha condannata; Argia è condotta fuori di Tebe perché ritorni alla sua città, al suo figlioletto, ai suoi affetti familiari, e le è stato concesso di portar con sé l’urna con le ceneri di Polinice. E di nuovo, sulle proposte piú trepide di Argia si levano gli sviluppi alti ed elegiaci (di un’elegia eroica e purissima) di Antigone, la cui grande figura raggiunge in queste scene la sua perfetta compiutezza: dall’iniziale monologo in cui la brama del «sospirato fine», l’ansia eroica della morte («Ti veggo in volto / terribil morte, eppur di te non tremo»), il timore di intenerirsi per la stessa pietà dimostratale dalle guardie, si incontrano in battute cosí misurate ed essenziali, dall’abbraccio con Argia e dalla esortazione alla vita in cui vibra, pudico e sommesso, l’accenno elegiaco a se stessa («Ah vivi; al figlio vivi, / e a lagrimar sovr’essa [l’urna di Polinice]; e, fra... i tuoi... pianti... / Anco rimembra... Antigone...»), alla battuta in cui la speranza della morte liberatrice si oscura nel dubbio doloroso della sua insufficienza ad emendare gli orribili delitti della famiglia di Edipo, fino all’accenno imperioso e disperato al «biasmevole amore» per il figlio di Creonte, fino al supremo addio in cui la forza eroica e l’elegia dell’Alfieri trovano nella voce altissima e ferma di Antigone uno dei momenti di espressione poetica piú intensa. Creonte è intervenuto a troncare i saluti delle due donne e la pietosa esitazione delle guardie, e alle sue parole incalzanti e affrettate, che indicano già l’esecuzione pratica del suo ordine, seguono la disperata interrogazione della umanissima Argia: «Oh cielo! / Non ti vedrò piú mai?», e la risposta di Antigone: nuda come un’epigrafe, ma vibrante di tutto il senso profondo che la sua appassionata personalità porta in quelle parole assolute: «Per sempre, ... addio»[15].

Con quelle parole assolute, con quella clausola di misura perfetta si chiude poeticamente la tragedia: le scene seguenti, in cui si sviluppa e si conclude il dramma di Creonte, malgrado i motivi e gli espedienti drammatici (minaccia di Emone a Creonte, vista del cadavere di Antigone sulla scena, suicidio di Emone, disperazione e risipiscenza tardiva di Creonte) sono nettamente inferiori rispetto alla formidabile impressione poetica lasciata dall’ultimo incontro di Antigone e Argia.

Sulla via indicata dalle parti poetiche dell’Antigone la poesia alfieriana si espresse in un primo compiuto capolavoro, in cui l’altezza dei motivi è pari all’organicità, all’armonica coerenza dei personaggi, alla perfetta coincidenza di trama e di azione poetica: l’Agamennone. In questa tragedia, in cui tutti i personaggi pur avendo vita propria collaborano e si integrano, il motivo fondamentale della poesia alfieriana viene ad esprimersi nell’azione stessa, e a vibrare coerentemente in diverse situazioni, nei personaggi. Il tremendo delitto nella sua occulta maturazione è infatti svolto nella tragedia (che ha cosí ben piú che un semplice valore teatrale-tecnico) come un motivo profondo e fatale che chiede liberazione ed espressione, affermazione completa e completo successo, mentre poi alla fine rivela la sua insufficienza a concludersi e dalla sua affermazione scaturisce la necessità di altre azioni e di altri delitti, il risorgere di altri limiti e di altri ostacoli. E di questa tensione e di questa finale delusione e dolorosa coscienza di un risorgere e moltiplicarsi dei limiti intorno alle azioni e agli uomini vivono coerentemente i quattro personaggi della tragedia; tutti, con mirabile e poetico sincronismo, accordati nel finale fortissimo e perfetto, in una comune situazione di delusione e di doloroso sentimento del crollo delle loro speranze e della loro tensione alla libertà e alla felicità.

Egisto, quando crede di dover cogliere il frutto della sua azione, di raggiungere la sua scellerata felicità, la liberazione dal fatale obbligo della vendetta familiare e dalla sua condizione di reietto e di esule, nella conquista del trono e nello sterminio della famiglia degli Atridi, si accorge di aver tutto perduto con la fuga del fanciullo Oreste. Elettra, che aveva sperato (pur nel presentimento sempre piú forte di una tragica conclusione) di riavvicinare padre e madre, di fare in tempo a sventare il delitto allontanando Egisto, vede frustrate le sue speranze e persino avverte di aver collaborato involontariamente al delitto non avvisando esplicitamente il padre. Agamennone nell’atto delittuoso di Clitennestra vedrà non solo dissolto tragicamente il sogno di pace a cui il suo animo ansiosamente e con preoccupazione crescente anelava, ma vedrà il delitto venirgli incontro proprio per mano della moglie che aveva sin all’ultimo sperato di riconquistare al suo amore («Tu, sposa?» sarà il grido della sua suprema delusione e amarezza). Clitennestra (in cui tutto è ancor piú complesso e profondamente scavato), quando (dopo una tremenda lotta interiore e l’intervento di Egisto che fa prevalere in lei l’affascinante immagine di una liberazione totale e sicura dall’ostacolo che la priva della felicità insieme a lui e, con l’ostacolo, di tutti i tormenti della sua coscienza) si decide all’uccisione di Agamennone, e la compie in una furia tanto piú forte quanto maggiore era stata la sua esitazione precedente, sente improvvisamente l’orrore di ciò che ha compiuto, e la sua assoluta insufficienza rispetto a ciò che credeva di potersene attendere: il delitto, che le appariva risolutivo e liberatore, le rivela il suo aspetto di limite ulteriore in quanto, invece della felicità, le apre un avvenire di rimorso e di angosce. Tutti i personaggi hanno dunque una loro altezza e una forza di personalità che contraddice all’impressione in vari critici di una tragedia “borghese” e alle caratterizzazioni troppo esterne che ne dà lo stesso Alfieri nel suo Parere.

Egisto non è riconducibile all’«amante vile» del Calosso[16] e il suo monologo, con cui si apre la tragedia, lo mostra carico di una forte passione (la vendetta del padre Tieste) e insieme di una consapevolezza della fatalità del delitto («entro mie vene / scorre pur troppo il sangue tuo: d’infame / incesto, il so, nato al delitto io sono»[17]) che lo animano e lo rendono complesso e tutt’altro che volgare od astratto: né c’è incoerenza fra l’intensità e la voce alta e appassionata di questo monologo, o di quelli in cui in altri momenti essenziali Egisto esprime il suo animo, e la lucida forza con cui egli conduce a poco a poco l’amante al delitto; ché anzi quei monologhi piú scoperti e gridati sembrano voler indicare la forza che urge nelle battute calcolate e sicure (ma percorse anch’esse in realtà dall’ansia del risultato, dalla torbida gioia del graduale successo) dei suoi dialoghi con Clitennestra. E Agamennone non è l’ottimo marito o l’«ottimo re» (o peggio il «marito tradito» che, secondo l’Alfieri, poteva diventare talvolta «risibile»[18]) in ciò che queste qualifiche implicano di mediocre e di puramente decoroso ed impoetico, perché anche lui è tutt’altro che placido e, mentre lo agitano il tormentoso ricordo del sacrificio di Ifigenia e il senso di una colpa seppur fatale, tanto piú forte ed ansiosa è la sua aspirazione ad una pace che gli appare dono prezioso e arduo, meta d’una tensione ostacolata dall’intima consapevolezza della sua difficoltà e perciò esaltata con parole cosí cariche di ansia sotto l’apparente sicurezza, nel bellissimo monologo al suo ritorno in Argo[19].

Quell’apparente idillio del ritorno è tutto pervaso da un’inquietudine che presto troverà conferma nel silenzio imbarazzato di Clitennestra ed Elettra, e nelle stesse parole cosí intense («bramar», «sperare», «vero porto / di tutta pace»), nell’assicurazione a se stesso che tutto gli è propizio e fido, sembra che Agamennone voglia placare un turbamento profondo e illudersi di un possesso arduo e, malgrado le apparenze, impossibile.

Anche Elettra, figura di grande franchezza e delicatezza, ha una sua pena profonda e vive nella volontà e nella speranza di liberare la casa dalla funesta presenza di Egisto e dal pericolo di un delitto che ella sente a poco a poco crescerle intorno, e a cui tenta invano di opporsi, presa drammaticamente fra quell’amore per il padre che esigerebbe un chiarimento completo a lui del tradimento della moglie, e l’amore per la madre che non le permette di parlare apertamente (cfr. specialmente la scena 2 dell’Atto IV).

Né tanto meno si potrebbe abbassare la grande e potente figura di Clitennestra alla “moglie delinquente”: grande figura alfieriana, viva di una prepotente passione che si colora, nel suo animo tormentato, della luce di un affetto invincibile per Egisto che le appare infelice e innocente e si giustifica con il risentimento verso Agamennone per il sacrificio della figlia Ifigenia; ma questa passione, che le fa vedere la scomparsa di Agamennone come la necessaria eliminazione dell’unico ostacolo alla propria felicità (prima spererà nella sua morte in mare – «s’ei [...] piú non vivesse?», dirà ad Elettra nella scena 2 dell’Atto I –, poi penserà ad una soluzione nella fuga con Egisto, poi ripiegherà sull’idea della propria morte e infine accetterà il delitto come atto estremo di liberazione), è in lei combattuta dall’orrore del delitto e da una contrastante tensione meno sicura, ma, a momenti, piena di grande energia, verso il rifiuto di un gesto di cui le balena a tratti la scelleratezza. Cosí il suo animo, tutt’altro che comune e debole, sostiene una lotta intima di grande energia e, nello scavo psicologico delle sue oscillazioni e dei suoi contrasti (che non si riduce a bravura di minuta analisi, ma è potentemente organizzato e poetico sulla salda base di una personalità capace anche di vigore nella sua eccitazione morbosa), essa vive un dramma complesso ed intenso.

Ma ciò che colpisce di piú in questa tragedia è poi la singolare misura tesa dell’insieme, l’armonia organica dell’azione in tutto il suo svolgimento, l’accordo intimo fra i personaggi. Fusione e aderenza di mezzi tecnici e di potenti motivi poetici che raggiunge la perfezione nella grande scena 1 dell’Atto IV, in cui la impetuosa volontà di azione di Clitennestra (eccitata dall’addio che Egisto finge di darle e dall’avvicinarsi della fine di quel giorno che ella ha chiesto all’amante come dilazione alla sua partenza e che è divenuto il termine incalzante della sua decisione) – «È tempo, / tempo è d’oprar» – si intreccia con la perfida macchinazione di Egisto che la sollecita mentre sembra ostacolarla e frenarla, fino al balenare orribile della necessaria uccisione di Agamennone («Or t’intendo. – Oh quale / lampo feral di orribil luce a un tratto / la ottusa mente a me rischiara! oh quale / bollor mi sento entro ogni vena! – Intendo: / crudo rimedio, ... e sol rimedio, ... è il sangue / di Atride»[20]) e all’accettazione da parte di Clitennestra di esser lei ad uccidere il marito; e tutta la scena si svolge in una tensione estrema e pur senza il minimo eccesso di enfasi.

E si noti che in questa tragedia il linguaggio può apparire meno rilevato, quasi prosastico, solo se non si intende la sua perfetta aderenza all’intensa poesia dell’azione che non ha bisogno dell’eloquenza di quelle narrazioni epico-drammatiche che abbondavano nel Polinice e che non mancavano in alcuni tratti dell’Antigone. Qui quel “sublime” che l’Alfieri aveva cercato nel Polinice con il silenzio improvviso nella battaglia fra i due fratelli e i loro alleati e seguaci, è divenuto ancor piú intimo nell’azione poetica; e quei «taciti passi» che nella notte rivelano a Clitennestra l’arrivo di Egisto e l’inevitabilità del delitto, il «Tu, sposa?» di Agamennone trafitto, ne sono altissimi esempi.

L’Oreste fu ideato nello stesso giorno dell’Agamennone (19 maggio 1776); l’Idea delle due tragedie venne stesa in prosa contemporaneamente nel 1777, a Siena, e nel 1778, a Firenze, l’Alfieri procedette alla versificazione dell’Oreste, subito dopo quella dell’Agamennone.

La vicinanza cronologica e la continuità del soggetto han fatto sí che si imponesse un paragone fra le due tragedie, che fu già istituito dall’Alfieri nel Parere sull’Oreste a tutto vantaggio di questa tragedia, da lui molto amata per l’impeto del personaggio centrale («caldo [...] in sublime grado») e per la forza unitaria dell’azione mossa da un solo «motore» e da una sola passione: una «implacabil vendetta». E quando suggeriva di farla rappresentare la sera consecutiva dell’Agamennone pensava che nella vicinanza «l’Oreste crescerebbe dopo l’Agamennone; e a tal segno forse crescerebbe, che se si volesse alternare, l’Agamennone dopo l’Oreste verrebbe anche a piacere assai meno di prima»[21]. E in genere la critica ha seguito la preferenza alfieriana[22] sino all’esaltazione indiscriminata del Ferrero, che pure nel suo saggio del ’35 La genesi dell’«Oreste»[23] aveva messo in luce elementi atti a indicare almeno il sopraggiungere di nuovi motivi poetici e addirittura di un nuovo dramma rispetto alla primissima concezione, che, mentre arricchiscono la tragedia, la complicano e mettono in pericolo la sua unità.

Ciò che si riscontra anche nella lettura diretta dell’opera, nella sua forma definitiva, nell’incontro di una linea centrale impetuosa, impersonata in Oreste, e di uno svolgimento drammatico piú complesso e tormentato (ricco di sospensioni, di presentimenti, di moti elegiaci che ricordano piú da vicino l’Agamennone senza averne la forza e la risonanza che in quella tragedia deriva dalla perfetta organicità di tutti i particolari), impersonato soprattutto in Clitennestra. Ma certo la spiegazione di un equilibrio imperfetto, di una certa dissonanza fra intonazioni diverse si ha piú chiaramente quando si osservano le forti correzioni che l’Alfieri apportò nel 1777 all’Idea del 1776. Questa era tutta dominata dall’azione di Oreste e della sua vendetta e dal contrasto deciso e violento fra Oreste, Elettra e Pilade da una parte e Clitennestra ed Egisto dall’altra: al punto che Clitennestra sperava ardentemente nella morte del figlio[24] ed era lei a consigliare ad Egisto (At. IV, sc. 2), incerto nel riconoscimento di Oreste e Pilade, di «farli morire entrambi» per esser sicuri di aver eliminato l’odiato e temuto Oreste. L’Idea corrispondeva cosí ad una concezione estrema e rigida, al desiderio di un nudo urto fra volontà opposte, al desiderio di una energica poesia dell’azione che in quel periodo affascinava l’animo dell’Alfieri, il quale maturava il trattato Della Tirannide e sentiva la poesia eroica della vendetta di Oreste tanto piú energica e sicura quanto piú le si opponeva la volontà concorde dei due assassini di Agamennone.

Ma quando, dopo aver steso l’Agamennone, l’Alfieri si accinse a stendere l’Oreste, egli (forse spinto soprattutto dalla grande figura di Clitennestra quale si era venuta sviluppando nella stesura dell’altra tragedia) sentí il bisogno di correggere la stessa Idea, prima di scrivere la stesura in prosa. E già in quelle correzioni appare il nuovo dramma di Clitennestra, e i suoi riflessi in tutto il disegno dell’opera: la regina non è piú interamente solidale con Egisto, in lei affiora un «contrasto di madre, o sposa del Tiranno» e nella battuta prima citata, invece di consigliare ad Egisto di far morire i due amici, lo consiglierà di «salvarli entrambi», mossa dal sentimento opposto a quello della prima concezione. E naturalmente su questa base la stesura e la versificazione procedono ad una progressiva rottura dei due gruppi in contrasto: Clitennestra ama e odia Egisto, contro cui in certi momenti si scaglia a difesa dei propri affetti di madre; Elettra, pure operando insieme ad Oreste e Pilade, prova pietà per la madre e fa di tutto per salvarla. Tutta la tragedia viene arricchita di toni e di motivi poetici piú vari, ma intorno alla forza piú compatta di Oreste risulta meno organicamente unitaria e oscilla fra la violenza persino parossistica della figura centrale e gl’indugi, le sfumature e i contrasti psicologici di Clitennestra e, in parte, di Elettra.

Ma in profondo non convince quanto a vera unità di questa tragedia l’impressione di una forza unificativa del potente motivo centrale con la vigorosa personalità di Oreste e con l’incalzare della sua azione vendicatrice, perché i motivi piú complessi e indugianti, che hanno il loro centro in Clitennestra, resistono con la loro diversa natura e intonazione al suo prevalere, certo agevolato, nella recita, dall’interpretazione tradizionale che punta quasi esclusivamente sul valore della figura di Oreste e della poesia dell’azione, della tensione furibonda verso il gesto risolutivo della vendetta. E del resto, nella stessa linea centrale, non si possono ignorare una certa lucidità metallica e certe forzature un po’ sofistiche, una ricerca di effetti meno intimamente poetici: come piú chiaramente si verifica nella serie di agnizioni del secondo e del terzo Atto negli incontri fra Oreste e Pilade ed Elettra e Clitennestra. Cosí nella scena 2 dell’Atto II, in cui lo stesso contrasto fra le battute di Oreste (che, secondo la sua natura impetuosa, tende continuamente a scoprire la sua identità e il suo furore di vendetta) e quelle di Pilade (che, saggio e prudente, continuamente cerca di dare un senso meno pericoloso alle imprudenti esclamazioni dell’amico e di mantenere il segreto sulle loro persone e sugli scopi della loro missione in Argo) finisce per creare momenti di efficacia e di bravura troppo scoperta e mette in pericolo l’eccessiva ricerca teatrale di una tensione dell’interesse degli spettatori: quando Elettra pronuncia la parola «tomba» e Oreste subito incalza: «Tomba! / Quale? dove? di chi?», e alla rivelazione della sorella (a cui dovrebbe tenere ancora nascosta la propria identità) che la tomba ricordata è quella di Agamennone, esclama: «O sacra / tomba del re dei re, vittima aspetti? / L’avrai»), Pilade corre subito ai ripari rispondendo ad Elettra, meravigliata da quelle parole dell’ignoto straniero: «Io non l’intesi», e cercando di sviarne l’attenzione in maniera piuttosto goffa[25]. Cosí come nella scena 3 dell’Atto III gli interventi di Pilade, se hanno l’effetto di prolungare le incertezze e la tensione di Clitennestra (turbata dalle espressioni di Oreste, ma non ancora capace di riconoscerlo), distruggono una vera, intima continuità poetica, inserendo fra le battute eccitate dell’amico («Del figlio, sí, d’Agamennón trafitto...», «Del figlio del trafitto...») e le domande meravigliate della madre, le sue spiegazioni sofistiche e poco adatte a quel momento di alta tragicità: «Ei dice, che trafitto Oreste / non fu»[26]. Sicché in generale si può dire che la presenza di Pilade, con la sua inutile saggezza, ha piú il valore di un espediente per effetti teatrali (nel contenere e quindi render piú fremente ed esplosiva la forza che urge in Oreste e nel tener sospeso l’interesse degli spettatori nelle complicate vicende delle agnizioni e della gara generosa fra i due amici davanti ad Egisto) che non una sua intrinseca necessità poetica, una sua forte vita di personaggio.

Certo la linea centrale e il motivo della poesia dell’azione legata ad una prepotente passione che chiede di essere soddisfatta (la vendetta) e ad un carattere di estrema energia, hanno il loro sviluppo piú genuino in Oreste che è, in questo senso, uno dei piú intensi personaggi alfieriani (ma non certo dei piú complessi e profondi), e alla sua individualistica potenza d’azione e alla sua bellezza poetica contribuisce quella sua natura giovanile che rende il suo impeto piú fiducioso nel proprio valore, piú spontanea la sua volontà di azione e la sua irriflessiva irruenza.

In Oreste vive questo elemento potente, ma parziale, della poesia alfieriana, perché la sua violenta volontà di azione, di liberazione nella vendetta sfocia in una frenetica furia che lo porta ad uccidere la madre senza neppure vederla, come in delirio, e manca cosí a lui quella piena coscienza del nuovo tremendo delitto involontario che lo rinchiude in nuovi limiti di colpa, quel pieno sentimento doloroso di delusione che è cosí caratteristico delle maggiori figure poetiche alfieriane. La trepidazione per il matricidio e il rimprovero ad Elettra di averlo serbato in vita per una conclusione cosí tragica lampeggiano rapidamente in uno stato di follia che non concede loro la risonanza profonda di altri finali alfieriani. E perciò questa figura e la linea centrale della tragedia da cui scaturisce la formidabile poesia dell’azione, incalzante fino al parossismo, sono tanto piú in contrasto permanente con l’altra linea piú scavata e pur meno potente e unitaria che si realizza soprattutto in Clitennestra, figura piena di esitazioni, tormentata da rimorsi e da incubi, presa fra affetti contrastanti (l’amore per il figlio, l’amore per Egisto, amore che è pur divenuto consapevole dell’ingenuità del suo oggetto e vuol salvarlo soprattutto come qualcosa per cui una troppo grande parte della sua vita si è svolta: «troppo [...] ti costa»), combattuta fra lo spirito di conservazione e un abbandono crescente al proprio destino tragico presentito e a un certo punto quasi invocato come purificazione e liberazione dalla sua situazione insostenibile.

Le due linee[27], le due intonazioni poetiche si intrecciano ma non si fondono perfettamente (e la loro sutura è piú evidente in Elettra, in cui la collaborazione all’azione va sempre piú indebolendosi a mano a mano che cresce in lei la pietà per la madre), e la grande ricchezza di poesia che viene aumentando nello svilupparsi della tragedia, al di là della sua prima concezione piú facilmente unitaria, non raggiunge la potente armonia, l’equilibrio di forza e di tormento che l’Alfieri aveva raggiunto nell’Agamennone.


1 Sentimento dell’autore su questa tragedia; in V. Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 371.

2 Cfr. V. Alfieri, Antonio e Cleopatra, I Poeti, Charles Prenzier, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di M. Sterpos, Asti, Casa d’Alfieri, 1980.

3 Patetico e romanzesco variamente legati alla suggestione dei testi francesi a cui l’Alfieri si era ispirato: l’Histoire nouvelle de Don Carlos del Saint-Réal, il Mithridate di Racine e l’Andronic del Campistron, con echi poi prevostiani nella direzione dei personaggi-âmes sensibles, che «si nutrono» (come si diceva nella stesura italiana) «della propria malinconia».

4 V. Alfieri, Filippo, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1952, p. 102.

5 Ivi, p. 190.

6 Ivi, p. 191.

7 Ivi, p. 275.

8 Ivi, p. 450.

9 Ivi, p. 92 (At. V, sc. 4, vv. 279-283).

10 Ed. cit., I, p. 202.

11 Di questo estremo bisogno di dominio illimitato e di odio implacabile sono soprattutto espressione nel finale (in cui Eteocle trafigge, in uno scellerato abbraccio, Polinice, da cui è stato ferito a morte in duello – fratricidio, «ammenda» dell’incesto da cui i due fratelli sono nati!) le parole estreme di Eteocle, che prima domanderà ai presenti se “muore re”, e poi risponderà al fratello (che gli chiede: «Sei pago tu?»): «Son vendicato. – Io moro;... / E ancor ti abborro...», portando fino al parossismo un odio che non trova neppur esaurimento nella vendetta e nel fratricidio (cfr. V. Alfieri, Polinice, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, p. 86).

12 Cfr. Atto V, sc. 2, vv. 47-51: «va’; lasciami; avranno / cosí lor fine in me di Edippo i figli. / Io non men dolgo; ad espïare i tanti / orribili delitti di mia stirpe, / bastasse pur mia lunga morte!» (V. Alfieri, Antigone, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1953, pp. 77-78). In forma meno sicura e meno sintetica questo essenziale passo compariva già nella prima versificazione del ’77 (cfr. ivi, p. 279).

13 Proprio alla fine (Atto V, sc. 2, vv. 49-51; Antigone cit., p. 78) Antigone dirà, come in un supremo dubbio, in un presentimento di insufficienza del suo gesto eroico e sacro, liberatore e purificatore:

[...] ad espïare i tanti

orribili delitti di mia stirpe,

bastasse pur mia lunga morte!...

Di nuovo appare cosí nel finale (prima del piú esterno e pur significativo moto di delusione di Creonte che intravede nel suicidio del figlio la punizione divina) la tipica sigla alfieriana di una conclusione di scontentezza, di pessimismo nello stesso supremo atto liberatore della morte.

14 Atto I, sc. 2, vv. 34-51 (ivi, p. 18).

15 At. V, scene 1, 2, 3.

16 Cfr. U. Calosso, L’anarchia di Vittorio Alfieri. Discorso critico sulla tragedia alfieriana, 2a ed. riveduta, Bari, Laterza, 1949, pp. 127-128.

17 At. I, sc. 1, vv. 5-7 (in V. Alfieri, Agamennone, Testo definitivo e redazioni inedite, ed.

critica a cura di C. Jannaco e R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1967, p. 11).

18 Cfr. Parere sulle tragedie cit., p. 97.

19 Atto II, sc. 4, vv. 180-187 e 191-195 (Agamennone cit., pp. 31-32):

Riveggo al fin le sospirate mura

d’Argo mia: quel ch’io premo, è il suolo amato,

che nascendo calcai: quanti al mio fianco

veggo, amici mi son: figlia, consorte,

popol mio fido, e voi Penati Dei,

cui finalmente ad adorar pur torno.

Che piú bramar, che piú sperare omai

mi resta, o lice? […]

[...] Oh vero porto

di tutta pace, esser tra’ suoi! – Ma, il solo son io,

che goda qui? Consorte, figlia,

voi taciturne state, a terra incerto

fissando il guardo irrequieto? [...]

20 Vv. 103-108; ivi, p. 58.

21 Parere sulle tragedie cit., pp. 99 e 100.

22 Si escluda però il Momigliano che, dopo una prima adesione alla preferenza tradizionale (introduzione al Saul, Catania, Muglia, 1921), nella Storia della letteratura italiana (Messina, Principato, 19538, p. 391) dette dell’Oreste un giudizio assai severo, notando che «cade nei frequenti parossismi alfieriani» e parlando di grande pagina di «poesia psicologica» solo per «la rappresentazione della discordia che, dopo il delitto comune, scaglia l’uno contro l’altro i due inquieti adulteri».

23 Ora nel volume Alfieri, Torino, Chiantore, 1945, pp. 353-401.

24 At. III, sc. 1: «Clitennestra par dubitar della morte d’Oreste, dice aver presagi troppo funesti, che non li lasciano sperar tanto». Nella correzione l’Alfieri cancellò Clitennestra e mise Egisto; ed è Clitennestra che rassicura Egisto dicendo che «glie lo farà purtroppo affermare dalli stranieri» (cfr. V. Alfieri, Oreste, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1967, p. 102).

25 Ivi, pp. 34-35.

26 Ivi, pp. 50-51.

27 Si ricordi che nella prima Idea del 1776 l’Alfieri aveva posto Clitennestra risolutamente dalla parte di Egisto; poi, nella nuova Idea del 1777, intuí la possibilità di un suo dramma piú complesso, presa fra l’amante e i figli.